Il fenomeno del vintage italiano

di Stefano Aria con il prezioso contributo di Jack Marchal e Marco Ballestri

Fetish guitars è diventato un neologismo . Il nome fu scelto per evidenziare quel lato insano e irrazionale che prima ha connotato la progettazione e poi la bramosia dell’acquisto 30 anni dopo. Immaginai che queste chitarre esprimessero un valore che andava oltre le qualità musicali. Qualcosa che ognuno doveva cercare nei ricordi e delle vibrazioni che potesse ricevere nel possederle.

Non sono tecnicamente un baby boomer e le Eko e gli altri strumenti non appartennero alla mia gioventù musicale. Si suonava negli anni 80 con quello che si riusciva ad avere e quando comprai un Vox Phantom appartenuto al bassista dei Matia Bazar per 80 mila lire non esitai a customizzarlo e poi distruggerlo.

Il circuito del vintage italiano, infatti, fino alla fine degli anni ottanta era confinato alle cantine, i mercati delle pulci, la spazzatura. Oggettivamente e giustamente trascurate dai “musicisti”, eliminate dal circuito da negozianti con magazzini pieni di made in Japan, traslochi e pulizie di primavera. Oltretutto erano ottime chitarre senza valore per provare a riverniciare, settare, cambiare, mischiare parti; chi non lo ha fatto? Una buona metà degli strumenti è finita nella spazzatura secondo il classico ciclo eredito/suono/customizzo/permuto/regalo/butto.

Solo negli anni ’90, col diffondersi delle informazioni sulla nascente internet, e con il forte potere d’acquisto di professionisti che da giovani suonavano la stratocaster, ci fu il boom del mercato della chitarra elettrica vintage. Tecnicamente questo termine si riferisce solo alle Fendre pre-CBS e alle Gibson degli anni 50 e 60. I pezzi erano pochi, le quotazioni stellari, e il termine vintage iniziò a indicare più elasticamente ogni strumento usato con più di vent’anni. Non ce ne vogliano i puristi se usiamo la parola Vintage per gli strumenti europei. Si potrebbe dire addirittura che il vintage italiano è (con Hagström) il solo autenticamente anni 60… Si ricercano Gibson, Fender, Gretsch etc. degli anni ’60 perché sono un po’ meno costose delle versioni degli anni 50…

Oggi collezionare vintage italiano vuol dire custodire una testimonianza di una rivoluzione culturale e musicale: gli anni 60 e il Beat. L’industria italiana vi è associata più di nessun altra per il semplice fatto che la sua età dell’oro corrisponde esattamente a quel decennio: tutti i costruttori hanno incominciato intorno al 1960 e tutti hanno fermato la produzione intorno al 1970 eccettuato Eko, che però non seppe più negli anni 70 continuare la dinamica creatività che gli aveva dato Oliviero Pigini, morto nel 1967.

A differenza dei tedeschi, gli italiani non erano legati ad alcuna tradizione, si sono lanciati in piena e spregiudicata ingenuità, in sintonia con lo spirito del tempo. Il paradosso è che il contributo alla musica degli anni sessanta di questi strumenti italiani è quasi nullo. Le numerose nuove idee introdotte sono generalmente rimaste senza seguito. È precisamente questo insieme di fantasiosa utopia gratuita che fa il fascino irresistibile e feticistico del vintage italiano, un’area dove l’inconscio e l’irrazionalità prevalgono.

Giudicare le prestazioni strumentali di questi strumenti è come rimproverare alla Fiat di non aver vinto gran premi, dimenticando che è stata l’artefice della diffusione di massa dell’automobile. Allo stesso tempo Eko, Catania, Meazzi, hanno portato uno strumento nelle case di tutti.

I marchi

Inutile insistere sullo statuto mitico delle chitarre perlinate della prima metà degli anni 60: Eko ha una forza sul mercato dell’usato internazionale eccezionale. Comprare è più difficile, rivendere è più facile. Crucianelli è l’opposto, assolutamente sottovalutato e misconosciuto, ingiustamente. Welson e Meazzi sicuramente appetibili e collezionabili, la prima più conosciuta all’estero, la seconda un’istituzione musicale italiana.

Le produzioni italiane del periodo 65-69 sollevano ormai un interesse crescente. Sempre più ricercate sono in USA le semiacustiche Goya e Vox, con conseguente rivalutazione delle semiacustiche di Zerosette, Crucianelli e Eko che ne sono le versioni originali e che rappresentano una combinazione ottima di antichità, bellezza e suonabilità.

La galassia Bartolini e Gemelli e tutti i costruttori di Castelfidardo stenta ad accreditarsi ma rappresenta una delle produzioni più originali. Per Wandré la particolarità dell’offerta e della domanda meriterebbe un discorso a parte.

Grazie al nostro sito le quotazioni si sono alzate un poco nel corso degli anni ma il recente periodo di crisi economica ha livellato verso il basso le quotazioni dei modelli più comuni e l’offerta oggi talvolta supera la domanda.

Esiste una data dopo la quale la produzione italiana perde interesse? Il problema si pone solo per la Eko, unico sopravissuto agli anni 60 (tutti gli altri smettono tra il ’69 e il ’72). Dei primi anni 70 rimane poco da salvare e si trattava di serie iniziate nel periodo precedente. Questa opinione non è condivisa da tutti e ci sono appassionati di strumenti Eko post Pigini anni 70/80 e una moltitudine di fan della Ranger in ogni sua versione che creano una nicchia di mercato a parte.

Il resto dell’Europa

In Inghilterra fanno mercato Vox e Burns su tutti. In Germania ogni marca e modello ha trovato la sua nicchia di mercato ma la grande quantità di pezzi prodotti contribuisce a tenere stabile il mercato. In Francia le chitarre elettriche degli anni 60 hanno raggiunto quotazioni impensabili ma la loro oggettiva rarità non consente di pianificare una collezione. Egmond in Olanda ha prodotto oggetti ignobili ma anche bizzarre chitarre dalle rifiniture originalissime. Comuni le prime, rarissime le seconde. Le svedesi Hagstöm e Levin stanno subendo un fenomeno di costante ascesa delle quotazioni che non vuole arrestarsi. Difficile dire se si tratta di una moda passegera. Certo che le chitarre svedesi si distinguevano per le loro elevatissime prestazioni, ma curiosamente le quotazioni più alte vengono spuntate dai modelli perlinati Goya/Hagstöm. All’Est si segnalano Defil e Jolana come oggetti entry-level, alcuni modelli sono abbastanza originali. Infine, i contrabbassi elettrici, di qualsiasi costruttore (Framus,Wandré, Ampeg), stanno rivivendo un periodo d’oro ed è difficile trovarne uno al prezzo stracciato di qualche anno fa. Merito delle migliorate amplificazioni per basso o nostalgia?

Il mercato e gli acquirenti

Internet ha permesso lo scambio di opinioni tra appassionati, l’osservazione statistica delle vendite degli strumenti attraverso inserzioni e aste, la ricostruzione storica e la possibilità di evitare bidoni, ha aumentato la conoscenza e stabilizzato (ma aumentato) le quotazioni complice anche l’adozione della moneta unica in Europa. Il valore di una chitarra va quindi posto nel contesto di un mercato internazionale, ma quanti sono poi diposti a sobbarcarsi la fatica di una vendita on-line all’estero? Vendere bene una chitarra su internet può durare sei mesi, chiaro che un’offerta in contante nella propria città deve accontentarsi di qualcosa in meno. Questo giustifica la differenza di prezzo tra aste on-line e annunci sui giornali locali. Nulla giustifica i prezzi praticati dai negozianti. Strano che nessuno di loro accetti in permuta una Eko 700 (provate…) ma sono tutti pronti a rivendervi la loro per 800 euro (provate…).

Marco Ballestri ha sagacemente individuato 3 macro-tipologie di acquirente:

a) Collezionisti esigentissimi che vogliono solo pezzi immacolati; questi non hanno problemi e spendono Xmila-euro come brustoline, ma comprano molto poco (perché hanno ormai tutto o quasi) da pusher fidati.

b) Gli ignoranti-vorrei-ma-non-posso e gli ignoranti puri. I primi hanno a disposizione un budget limitato e comprano spesso strumenti di nullo interesse (sia dal punto di vista strumentale che da quello storico): sono la gioia di molti trafficanti che rifilano loro articoli a prezzi non congrui (cioè l’acquirente – felice – spende poco, ma compra qualcosa che in realtà vale ancora meno). I secondi, non conoscendo bene la storia e il significato delle varie produzioni, non riescono a dare il giusto valore alle cose e si lasciano sfuggire pezzi pregiati anche se sottocosto.

c) I giudiziosi che, a loro volta si dividono in 3 categorie:

  • gli appassionati che si svenano pur di avere (anche solo temporaneamente) uno strumento da studiare nei minimi dettagli, millimetro per millimetro;
  • gli appassionati-nostalgici che fanno di tutto per ritornare in possesso di qualcosa che li riporti indietro nel tempo, indipendente dal rapporto costo/valore reale di quello che comprano.
  • quelli che conoscono molto bene gli strumenti, ma non possono permetterseli e perciò sono costretti a fare da intermediari con la fasce a e b.
  • Il musicista che voglia avere uno strumento alternativo nel suo set.

Nessuno può dirsi migliore o peggiore a seconda della fascia in cui si riconosce (anche perché accade spesso che nel corso della vita uno cambi fascia), l’importante è che l’oggetto con cui si trova ad interagire (o che si porta a casa) gli piaccia e sia in grado di trasmettergli sempre e comunque emozioni.

Ma da dove arrivano queste emozioni. Qual è la genesi di questa incurabile patologia? Intravedo delle possibili tipologie ricorrenti. I nostalgici, quelli che hanno vissuto gli anni 60 da protagonisti e quelli che vi sono nati e che ne hanno sentito parlare in modo mitico. I primi di solito acquistano anche memorabilia, dischi, vestiti. Non è infrequente che si vestano come negli anni 60. Persone di mezza età, con un forte potere d’acquisto che di solito selezionano esemplari in condizioni immacolate. Per loro è indispensabile il fattore Time Machine.

Poi ci sono gli Alternativi. Quelli, che forse con po’ di snobismo, vedono in questi strumenti la massima espressione dello strumento alternativo per musicisti alternativi. Le Vox recuperate dai Joy Division come spazzatura, le Jazzmaster dei Cure e dei Sonic Youth, i relitti del punk. La chitarra catorcio si fa quindi bandiera di questa libertà. Sono (siamo) i collezionisti nati quando venivano prodotte le chitarre vintage italiane e che le vedevano buttare nella spazzatura negli anni 80. Anche per questi il fattore Time Machine è determinante ma contano anche le buone vibrazioni. Questi suonano più spesso gli strumenti dei nostalgici che spesso mettono i cimeli in vetrina o non hanno mai suonato uno strumento in vita loro.

Suonabilità, affidabilità e condizioni.

Tranne poche eccezioni nessuna chitarra degli anni ’60 può competere con le chitarre di produzione contemporanea sul terreno dei parametri standard: versatilità, sustain, tastiera, vibrato, intonazione, tenuta dell’accordatura, etc, etc. 

Si dovrebbe giudicare la suonabilità assoluta di un modello su un esemplare originale, integro e ben settato. In questo senso quasi tutte le chitarre italiane riservano qualche sorpresa. Le prime chitarre elettriche (58/62 azzardiamo) scontano ancora i limiti dell’artigianalità e delle ristrettezze economiche ma già chitarre come le Eko 500/700 sono suonabili e spesso superiori alle omologhe tedesche dell’epoca.

Oggi con corde nuove, con un buon amplificatore e di solito una pedaliera, l’ascoltatore finale non distinguerà una chitarra da un’altra. Quindi consiglio al musicista alternativo di scegliere una chitarra vintage italiana solo se le buone vibrazioni lo aiutano a suonare meglio o semplicemente in modo diverso. Personalmente mi sto orientando a preferire strumenti ben settati e ben rifiniti, a scapito del fascino vintage nell’uso quotidiano.

Se per il vintage tradizionale l’effetto relic provocato da Fender ha attutito il premio di solito riservato alle condizioni mint dello strumento, per il vintage italiano le condizioni dello strumento diventano determinanti. Questa ovvia ed elementare regola viene percepita come schizofrenia del mercato. E’ possibile trovare la stessa Eko a 100 o 600 euro solo per le diverse condizioni. Ed è giusto che sia cosi. Quasi impossibile ormai trovare esemplari a cui si possa attribuire la MINT CONDITION.

Qualche suggerimento per il musicista

Semiacustiche Welson e Crucianelli validissime alternative alla produzione asiatica contemporanea se comprate a prezzi onesti. Qualche solid-body Welson in condizioni buone può essere un’ottima alternativa alle chitarre monotono (Jaguar, Mustang etc), stesso discorso per le Eko perlinate ma con qualche limite per il tono dei pickup e il debole sustain. Qualche Eko solid body in legno massello (Condor, Rokes, Auriga) possono essere un’ottima arma in più per la presenza scenica dal vivo. Meazzi e Wandré utilizzabili in contesti di art-rock surrealista/rumorista o complessini revival à la Carosone/Buscaglione/Van Wood. Il resto, o quasi, attaccato al muro.